Ogni momento della vita è un’esperienza. Quindi è un pò forzato definire con questa espressione solo alcune esperienze. Ho voluto peraltro qui riassumere le esperienze ritenute non usuali per un economista e un manager. L'ho fatto per illustrare una tesi che ho sempre sostenuto nelle mie lezioni: non concentratevi solo sullo studio; concentratevi sulla vita nelle sue forme molteplici e meravigliose. Imparare a salire una grande montagna, conoscere camminando popoli e culture diverse, vedere il mondo in bicicletta; imparare anche a muoversi lentamente ed a vedere le cose in profondità, non è solo una cosa meravigliosa in sé, ma è utile e arricchente per la propria professione o mestiere, qualunque esso sia.


 
  McKINLEY LA GRANDE MONTAGNA DI GHIACCIO
  La prima volta che sentii parlare del McKinley fu al rifugio Casati, al Cevedale, verso il 1970. Ne parlava Annibale Zucchi che, nel 1961, fu uno dei giovani che, con la guida del grande Cassin, scalarono la Sud del McKinley, memorabile impresa, onorata, tra gli altri, da un caloroso telegramma di congratulazioni del Presidente Kennedy e grazie alla quale il nome di Cassin (e attraverso lui dell'alpinismo italiano in generale) è molto popolare nella regione.
Annibale Zucchi è un tipo taciturno, ma quando, qualche sera, incominicava a parlare del McKinley (o Denali, secondo la denominazione più antica che vuol dire "la grande") si scaldava, gli brillavano gli occhi ed era bello sentirlo parlare di quella lontana, enorme, affascinante montagna, "la grande montagna di ghiaccio" come la chiamavano gli indigeni ed i primi pionieri.

Mai avrei pensato che, un giorno, mi sarei accostato anch'io a quella montagna, la più alta del continente americano (6194 m), a quella poderosa catena di cime dove "regna un clima medio da considerarsi il più rigido del mondo" (Bradford Washburn), e "della quale nulla di comparabile esiste al mondo a questa latitudine" (Terris Moore).

Ma quando, una notte, sulla rotta di Tokyo, approssimandosi lo scalo di Anchorage, la vidi, maestosa e pur dolcissima, illuminata dalla luna, decisi che, un giorno, ci sarei andato. E così fu, qualche anno dopo. CONTINUA
 
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  SULLE ALPI DEL SICHUAN
  Parlare della provincia cinese del Sichuan vuol dire parlare di una regione più grande della Francia, con cento milioni di abitanti, in gran parte contadini, dalla natura varia e rigogliosa, ricca di storia, di cultura e di etnie. Vuol dire anche parlare di una regione dove milioni di contadini vivono quotidianamente una durissima giornata di lavoro, coltivando -con cura infinita- ogni metro di terra, con metodi antichi e gesti che sembrano antichi ma che, in realtà, sono gli stessi dei contadini della nostra fanciullezza e perciò familiari e cari alla memoria. Dura giornata di lavoro vissuta, in gran parte, in condizioni di dignitosa povertà, ma mai di miseria, come capita di vedere in altre zone agricole, soprattutto dell' America Latina e dell'India. Un mondo contadino che da noi è morto, ma che qui, invece, troviamo vivo, intatto, con i suoi immensi problemi, con le sue ingenuità, ma anche con la sua straordinaria forza e con i suoi valori.

Parlare delle Alpi del Sichuan vuol dire parlare di una catenadi montagne di primo piano, dove al famoso Mynia Konga (7825 m)fanno corona molte altre montagne di 6000 - 7000 metri, in gran parte mai scalate e alcune, pur bellissime, senza neppure un nome, al di sotto delle quali si allungano infinite aspre vallate piene di boschi e di foreste vergini, dove l'orso nero ed il panda trovano il loro habitat naturale.
Abbiamo percorso nel 1980 circa mille chilometri nel Sichuan, in jeep e a piedi, per una ricognizione del versante nord-est del gruppo del Mynia Konga, un versante mai esplorato da alcuna spedizione alpinistica, nè occidentale nè cinese...CONTINUA
 
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  SULLA CORDILLERA REAL
 

Sulla Cordillera Real in Bolivia siamo andati nel 1978. Siamo stati ininterrottamente per quarantacinque giorni sulla Cordillera salendo tre cime, Chearoco, Illampú, Ancohuma (6480 mt) aprendo nell’ultima una via in prima mondiale sullo spigolo Est-Sud-Est. Di questa stupenda avventura ricordo soprattutto la qualità dei compagni. C’erano Cosimo Zappelli, grande alpinista, già secondo di Bonatti in alcune scalate memorabili, guida alpina a Courmayeur, morirà per una scarica di rocce sul “suo” Bianco nel 1990; Giuseppe Lafranconi, forte alpinista, membro dei Ragni di Lecco con i quali partecipò alla memorabile spedizione al Cerro Torre, guida alpino a Livigno; Franco Gugiatti, forte alpinista, istruttore nazionale di sci alpinismo, valtellinese; Kiki Marmori, biologa, grande viaggiatrice e alpinista dilettante; Angelo Gelmi sacerdote bergamasco a La Paz, diventerà vescovo di Cochabamba, fortissimo andinista. Tutti, compresi i grandi alpinisti professionisti salivano sulla Cordillera solo per la gioia di salire, di unirsi alla montagna, di immergersi nei grandi silenzi e nelle immense stellate. Fummo tutti veramente amici, felici, vicini a Dio ed a lui grati. Ricordo anche il senso di libertà che non ho più vissuto così intensamente in nessun altro luogo. Almeno allora, su quelle meravigliose montagne, si era totalmente liberi. Non c’era nessuna organizzazione, né permessi, né aiuti. Sapevamo che se ci fosse successo qualcosa ce la saremmo dovuta cavare da soli. Ma, in compenso, potevamo andare dove volevamo, quando volevamo, senza chiedere permessi, senza lasciare recapito, senza telefonini che non esistevano. L’opposizione politica era concentrata nelle città. Per quarantacinque giorni comunicammo solo tra noi e con gli indios dei villaggi dell’altopiano.
Ricordo i meravigliosi sacerdoti  bergamaschi che, coadiuvati da efficienti suore, da anni, in quella terra politicamente e culturalmente durissima, dispensavano bene e amore, aiuti, educazione e speranza. E ricordo Angelino, il capo del piccolo gruppo di portatori che ci accompagnò al campo base dell’Ancohuma. La Bolivia veniva da una lunga e severa dittatura del generale Balser. Quando lasciammo La Paz, per una serie di vicende politiche, in Bolivia  si stavano preparando le prime elezioni quasi libere da decenni. I sacerdoti bergamaschi ci dicevano che queste elezioni potevano essere importanti. Partimmo per l’Ancohuma e ci scordammo delle elezioni. Mai pensammo che potessero avere qualche interesse per gli indigeni che erano con noi. Ma un giorno Angelino ci disse: devo scendere per andare a votare. E ci lasciò per un duro viaggio di quattro giorni per andare a votare e ritornare da noi. Quando rientrammo a La Paz, la città era in stato d’assedio, con i carri armati ad ogni crocicchio, perché le elezioni non erano andate come volevano i generali. Pensai ad Angelino ed a tutti gli uomini come lui che aiutano a vivere ed a credere, nonostante i generali.

 
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  SUL BROAD PEAK (mt. 8047) - 1988
 

Il Broad Peak (denominato anche K3) si erge proprio di fronte al mitico K2 ed il lungo tragitto al campo base è pressoché identico a quello per il campo base del K2 che si trova a non più di un chilometro di distanza, poco più alto di quota. Allora, a seconda delle condizioni del tempo e del terreno, ci volevano da dieci a dodici tappe di lungo e accidentato cammino. Siamo saliti con una spedizione leggera (60 portatori, gli alpinisti Giuseppe Lafranconi, Mario Carrara, Claudio Schranz, il medico Nicola Dimache e Marco Vitale). Quante cose abbiamo visto e quante cose sono successe in quel mese passato sui ghiacciai del Karakorum: l’organizzazione complessa, l’affascinante viaggio notturno in un piccolo pullman lungo la tumultuosa valle dell’Indu; la serena Skardu; il lungo cammino sulle morene del Baltoro; l’amicizia con alcuni portatori; l’organizzazione del campo base e dei campi 1 e 2; la bufera; l’infiammazione intestinale di Mario Carrara a 7000 metri; il suo faticosissimo recupero; la paura che non ce la facesse a passare la notte al campo base; l’elicottero militare, dai suoi fortunosamente chiamato, che contravvenendo alle regole, sale oltre i 5000 metri per portare giù Mario prima al campo militare a 4000 metri e poi all’ospedalino di Skardu. Quanti sentimenti, paure, rabbia per i comportamenti non sempre corretti di un membro della spedizione. Ma quali sono i ricordi più vivi? L’anziano portatore che mi regala un mazzolino di fiori scovato chissà dove in un contenitore di corteccia, come segno di riconoscenza per le mie attenzioni verso i portatori; la luna piena che illuminava il K2 quando uscivo dalla tenda dove assistevo Mario Carrara; il giovane portatore che mi dice con orgoglio: mio padre è stato portatore con Bonatti; l’umanità, la dedizione e l’efficienza del medico dell’ospedalino di Skardu; il giovane portatore che studiava a Lahore, che era appassionato di fisica e sapeva tutto di Fermi, Amaldi e degli altri grandi fisici italiani. E poi ricordo che al Ministero competente a Rawalpindi, dove mi ero recato per un ultimo controllo dei permessi, il funzionario competente dopo aver esaminato il mio passaporto esclamò: ma lei, alla sua età, fa ancora queste cose! Fu quella la prima volta che percepii di essere vecchio. Sul Karakorum ho imparato che anche sulla grande montagna ci portiamo dietro tutti i nostri difetti e il nostro egoismo, ma che la grandezza della natura sovrasta anche le nostre cattiverie.

 
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  GRAZIE AL POPOLO ITALIANO
 

In Kosovo non andai per montagne ma, nel 2001, per investire ingenti fondi che generosissimamente il popolo italiano ci aveva affidato per aiutare il popolo kosovaro, vittima della pulizia etnica serba e delle conseguenti guerre contro la Serbia. Erano fondi privati che dovevano andare da cittadini a cittadini e quindi potevano muoversi con grande velocità ed efficacia senza le solite rigidità e ritardi della finanza pubblica. Io ero stato nominato Commissario Unico per la gestione dei fondi privati nell’ambito della generale operazione Arcobaleno. Con uno stretto gruppo di valenti collaboratori, tutti volontari, dovevamo valutare, giudicare e finanziare i progetti che le ONG italiane ci sottoponevano. I ricordi sono tantissimi e tutti, o quasi, molto belli. La nostra elasticità e velocità erano tali che ci permisero di aiutare persino Kouchner, attuale ministro degli esteri francese, e allora governatore generale del Kosovo, a finanziare dei lavori urgenti nelle miniere di Mitrovica, evitando così una rischiosa marcia dei minatori su Pristina. Ma soprattutto ricostruimmo case e scuole. Di scuole ne ricostruimmo settantacinque ed un direttore scolastico ci disse: voi italiani, siete entrati nella storia della scuola kossovara.
Le ONG italiane furono meravigliose. Senza tema di smentita, le migliori e le più efficaci delle tante che operavano in Kossovo. E’ sempre stato per me un mistero perché le ONG italiane non abbiano saputo valorizzare questa loro grande esperienza internazionale e gli straordinari risultati raggiunti, ed hanno permesso che pochi mascalzoni svilissero questa grande operazione.
Grazie, comunque, al popolo italiano che con i suoi fondi e le sue ONG ci ha permesso di fare una straordinaria “full immersion” di umanità e di essere veramente utili a fratelli sofferenti.

 
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  E TANTE ALTRE STORIE
 

Mi devo fermare, altrimenti dovrei parlare di viaggi e di incontri in Patagonia, India, Canada e in tanti altri luoghi. L’unica cosa che voglio ancora dire è che tutte queste esperienze mi hanno insegnato tante cose, ma su tutte una: l’uomo e la vita sono una cosa meravigliosa; ovunque e da tutti si possono ricevere lezioni profonde. Ma bisogna imparare ad ascoltare ed a spogliarsi di se stessi.



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